Non bastavano le divisioni tra apicoltori con partita IVA ed apicoltori per autoconsumo, tra allevatori di api italiane ed allevatori di “altro”, ora, tanto per non farci mancare niente, il dibattito si sta animando tra apicoltori stanziali ed apicoltori nomadi.
Addirittura qualcuno sta diffondendo la voce che l’Associazione Miele in Cooperativa promuove politiche contrarie al nomadismo.
FAKE NEWS. Più o meno “dolosamente” veicolata sui canali social.
Molto più semplicemente e molto più concretamente, Miele in Cooperativa ha aperto un dibattito sul modello di apicoltura che vogliamo costruire per il futuro, al quale ovviamente non può restare estraneo il tema del nomadismo.
Ma andiamo in ordine.
Innanzitutto vediamo cosa si intende per nomadismo.
Non esiste una definizione universale di questo “tipo di conduzione degli alveari”, ma possiamo descriverlo, più o meno come una tecnica di allevamento che consiste nello spostare gli alveari “per seguire le fioriture” che progressivamente si succedono nel corso dell’anno, con la finalità di prolungare i periodi di raccolta nettarifera ed aumentare il rendimento produttivo di ogni singolo alveare.
Concettualmente, dunque, si tratta di effettuare una sorta di transumanza da zone non produttive a zone produttive. Elemento distintivo della transumanza classica è la permanenza degli alveari “in loco” per il tempo strettamente necessario alla raccolta sulla fioritura target. In tal modo è possibile produrre i tanto agognati mieli monofloreali.
Questa tecnica si è affinata in un contesto apistico caratterizzato, sostanzialmente, da grandi “pascoli melliferi” e pochi alveari sul territorio.
La mente si rivolge subito, così a puro titolo esemplificativo, certamente non esaustivo, agli agrumeti del metaponto, piuttosto che agli eucalipti dell’agro-pontino, passando per i campi di girasole della fascia adriatica. Anche l’acacia delle zone pedemontane piemontesi era considerata “target” per le grandi transumanze.
Nel tempo molte aziende si sono strutturate per affrontare la tecnica del nomadismo in forma intensiva, con spostamenti di centinaia e centinaia di alveari per migliaia di chilometri l’anno. Il tutto giustificato da produzioni “importanti” per quantità e qualità.
Oggi la situazione è oggettivamente molto cambiata. Strutturalmente e funzionalmente.
E’ sotto gli occhi di tutti.
La disponibilità dei pascoli si è notevolmente ridotta. Per l’antropizzazione di alcune aree, ma anche perché alcune risorse nettarifere storiche, come il girasole, sono state sostituite con colture che non offrono nettare. La crisi del settore ortofrutticolo, invece, ha prodotto l’espianto di grandi superfici, anche agrumicole, ad esempio.
A fronte di una riduzione dei pascoli si è assistito, negli ultimi venti anni, ad un incremento significativo, potremmo affermare molto significativo, degli alveari e degli apicoltori. A differenza del passato oggi possiamo ritenere l’apicoltura sostanzialmente ubiquitaria sull’intero territorio nazionale.
Meno pascoli, più alveari. Ma non è finita. Gli areali produttivi, infatti, sono diventati molto meno generosi. I cambiamenti climatici in corso, infatti, nel migliore dei casi, hanno ristretto le finestre temporali delle fioriture. Di tutte le fioriture. Quindici/venti giorni massimo è il tempo che mediamente le api possono utilizzare per raccogliere nettare. E si deve sperare che in questo lasso di tempo, le condizioni meteo siano clementi. In altre situazioni, siccità protratte nel tempo o gelate tardive, etc. etc., fano sì che i fiori non riescono più a produrre nettare.
Bastano queste poche considerazioni per prendere atto che, oggettivamente, il contesto di riferimento in cui ci troviamo, come apicoltori, ad operare oggi e soprattutto in cui opereremo domani, è mutato profondamento e sta mutando ancora.
L’apicoltura va ripensata. Va adeguata alle sfide che ci attendono nel futuro.
Una sfida su tutte. Dare centralità al valore ecosistemico delle api e degli apicoltori.
Un cambio di mentalità che possiamo definire radicale perché presuppone la trasformazione dell’approccio culturale all’attività apistica da un modello di business puro ad uno di economia sostenibile a tutto tondo.
Ovviamente in questo processo evolutivo la tecnica del nomadismo non può rimanere estranea, come anticipato in premessa. Proprio perché pensata per dare risposte efficaci in un’altra epoca apistica. Deve essere aggiornata.
Partendo, però, da un presupposto.
Non ci deve essere spazio per guerre ideologiche o contrapposizioni di bandiera. Ne abbiamo anche troppe all’interno del nostro piccolo, ma battagliero settore. Il dibattito deve essere concentrato sul merito delle cose. In un’ottica costruttiva e migliorativa della situazione attuale.
Dunque a scanso di equivoci, non ci dovranno essere fazioni pro e fazioni contro il nomadismo. Queste inutili diatribe le abbiamo vissute e le stiamo vivendo per altri temi, ed i risultati non sono mai stati e non sono utili a nessuno.
La soluzione non può che passare per il dialogo. Anzi le opinioni contrastanti devono essere l’alimento basale di cui si devono nutrire le soluzioni.
L‘argomento, secondo il nostro parere, va affrontato a partire da un esame delle criticità legate alla versione caratteristica del nomadismo. Intasamento delle aree produttive, tensione tra apicoltori che si contendono gli areali, grandi spostamenti su gomma, sono solo le più evidenti.
Certamente un aiuto importante ci potrebbe arrivare dalla legiferazione di normative nazionale (di indirizzo) e regionali (di applicazione) di regolamentazione del nomadismo, con l’individuazione, ad esempio, dei carichi in alveari che ogni territorio può sopportare in base alle potenzialità mellifere. Un lavoro complesso, un obiettivo di lungo periodo.
Il concetto di base però è ritornare al valore ecosistemico dell’apicoltura del futuro. Un aspetto che ovviamente non può prescindere da un rapporto intenso e continuo dell’apicoltore con le sue api e con il territorio di appartenenza. Un rapporto di reciprocità, dove deve essere “bannato” (per usare un termine tecnologico) il concetto di sfruttamento. Tutta l’attività apistica deve essere e deve apparire legata al proprio ambiente di riferimento, in uno straordinario equilibrio che poi deve essere raccontato ai consumatori, attraverso le produzioni.
In questa cornice un nomadismo aggressivo, del tipo “mordi e fuggi” non può e non deve trovare spazio.
Per noi non ha più senso partire dalla propria residenza, percorrere migliaia di chilometri, posizionare centinaia di alveari in un areale che magari già ne ospita migliaia, intasare quell’area per quindici/venti giorni, nel frattempo battibeccando con gli apicoltori locali, per poi andare via, appena finita la fioritura.
Allora per chiarezza, diciamo che questo modello di nomadismo, dal nostro punto di vista, non ha nessun futuro. Perché non è sostenibile eticamente, ambientalmente e, perché no, anche economicamente.
Questo però, come detto anche in premessa, non significa voler abolire il nomadismo, che anche secondo noi, resta un’attività importante nella gestione dell’azienda apistica.
La nostra proposta di rimodulazione disegna un modello che tende a consolidare le opportunità ed i punti di forza dell’apicoltura, anziché riempire la casella delle minacce.
Facciamo alcuni esempi, per capirci.
Certamente possono essere condivisi i trasferimenti degli alveari per consentire la produzione di mieli tipici del proprio territorio (dove le dimensioni territoriali vanno interpretate in una logica di omogeneità apistica e possono essere circoscritte al livello regionale ma, in determinati casi specifici, andare anche oltre); in tal modo il nomadismo rafforzerebbe il rapporto tra apicoltore ed il proprio territorio, proprio attraverso lo storytelling della produzione tipica.
Ma la nostra visione di nomadismo va anche a tutelare il benessere animale.
Dunque ben vengano i trasferimenti di alveari in caso di necessità, verso zone di pascolo in grado di garantire quanto meno il sostentamento alimentare di base. In tal modo, tra l’altro, si ridurrebbe anche il ricorso alle alimentazioni integrative (o di soccorso, come si suol dire oggigiorno), riportando, anche in questo caso, il modello di allevamento ad una forma più sostenibile.
La proposta di nomadismo che noi stiamo costruendo, dunque, nel rispetto di una visione di sviluppo di un’apicoltura sostenibile che si manifesta in piena sinergia con il proprio territorio, determina un equilibrio solido nel rapporto ape-apicoltore-ambiente.
Avremo un’apicoltura che produce davvero la tipicità dei nostri territori, che arricchisce l’ambiente del proprio valore ecosistemico e che si rafforzerà sul mercato perché i suoi prodotti si avvantaggeranno di un racconto che verrà percepito dal consumatore come un valore ben superiore alla semplice valenza nutrizionale.
Questo è il nostro pensiero corretto. Siamo pronti al confronto. Parliamone.